Alle Murate

Le lingue della Commedia

Le lingue della Commedia
Pieter Brueguel il Vecchio, Torre di Babele, 1563, olio su tavola, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Nel De vulgari eloquentia Dante sosteneva che la lingua di Adamo, la prima in assoluto, era l’unica incorruttibile e perfetta, mentre tutte le lingue successive alla confusione babelica erano destinate a mutare nel tempo e nello spazio. Nella Commedia, però, supera questa tesi, e fa dire ad Adamo (nel canto XXVI del Paradiso) che ogni lingua è di per sé mutevole e caduca. Così facendo, Dante legittima l’uso del volgare fiorentino – corruttibile come tutti gli altri idiomi del passato e del presente – nel suo capolavoro.




Fra le opere di Dante, la Divina Commedia è sicuramente la più fiorentina, quella cioè più in linea con la lingua usata a Firenze tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. È sufficiente però leggere una pagina qualunque del capolavoro dantesco per notare che il lessico fiorentino è costantemente arricchito da parole provenienti da altre lingue: ecco allora affiorare latinismi (come perpetuo e quisquilia), grecismi (come tetragono e baratro), arabismi (alchimia e nuca), gallicismi (gioia e bolgia) e parole prese da parlate italiane diverse dal fiorentino (come il bolognese sipa ‘sia’). Molte sono anche le voci (come triangolo o coagulare) proprie del linguaggio tecnico-scientifico. La grande creatività di Dante si esprime, inoltre, attraverso una serie di neologismi audacemente inventati dal poeta stesso: ad esempio i verbi intuarsi ‘penetrare in te’, indiarsi ‘penetrare in Dio’ o trasumanare ‘trascendere l’umano’. Di là dalle singole parole, alcuni passi della Commedia sono in latino, altri in provenzale, altri ancora in lingue incomprensibili: il famoso «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!» pronunciato da Pluto, e il verso «Raphèl maì amècche zabì almi» pronunciato non a caso da quel Nembrot da cui la tradizione fa derivare la confusione dei linguaggi al tempo di Babele.