Alle Murate
«E lascia pur grattar dov’è la rogna», «ed elli avea del cul fatto trombetta», «vidi un col capo sì di merda lordo», «Taïde è, la puttana che rispuose»… Se nella Divina Commedia non è raro imbattersi in parole popolari e realistiche, talvolta perfino oscene, è perché Dante, nel suo capolavoro, adotta la lingua fiorentina in tutte le sue varietà, anche le più basse. Non mancano, di conseguenza, veri e propri idiotismi fiorentini come manichiamo ‘mangiamo’ e introcque ‘intanto’, due parole che lo stesso Dante, in un trattato precedente alla Commedia intitolato De vulgari eloquentia, aveva condannato perché rozzamente municipali. E non mancano neppure versi come «già veggia per mezzul perdere o lulla», che Giovanni Della Casa, due secoli dopo, giudicava comprensibile solo a un fiorentino (veggia sta per ‘botte’; e il mezzule e la lulla sono due sue componenti). Proprio a queste scelte lessicali di Dante si deve il giudizio parzialmente negativo su di lui formulato nel Cinquecento da Pietro Bembo: citando due versi dell'Inferno «e sì traevan giù l’unghie di scabbia, / come coltel di scardova le scaglie» (XXIX, vv. 82-83), Bembo deplorava quelle discese dantesche verso il basso che noi moderni possiamo apprezzare. E non è un caso che Bembo, nel codificare l’italiano letterario, abbia scelto Petrarca come modello della poesia e Boccaccio come modello della prosa, mettendo in secondo piano proprio Dante.
Le “parolacce” della Commedia e la bocciatura di Bembo
Gustave Doré, Inferno, Canto X, 1861, incisione.
Pur presenti in tutta la Commedia, le parole realistiche e popolari si addensano nella rappresentazione del mondo infernale. L’illustrazione raffigura uno dei più noti episodi dell’Inferno: Dante e Virgilio davanti al sepolcro di Farinata degli Uberti («Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in su tutto ’l vedrai”»).
Pur presenti in tutta la Commedia, le parole realistiche e popolari si addensano nella rappresentazione del mondo infernale. L’illustrazione raffigura uno dei più noti episodi dell’Inferno: Dante e Virgilio davanti al sepolcro di Farinata degli Uberti («Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in su tutto ’l vedrai”»).
«E lascia pur grattar dov’è la rogna», «ed elli avea del cul fatto trombetta», «vidi un col capo sì di merda lordo», «Taïde è, la puttana che rispuose»… Se nella Divina Commedia non è raro imbattersi in parole popolari e realistiche, talvolta perfino oscene, è perché Dante, nel suo capolavoro, adotta la lingua fiorentina in tutte le sue varietà, anche le più basse. Non mancano, di conseguenza, veri e propri idiotismi fiorentini come manichiamo ‘mangiamo’ e introcque ‘intanto’, due parole che lo stesso Dante, in un trattato precedente alla Commedia intitolato De vulgari eloquentia, aveva condannato perché rozzamente municipali. E non mancano neppure versi come «già veggia per mezzul perdere o lulla», che Giovanni Della Casa, due secoli dopo, giudicava comprensibile solo a un fiorentino (veggia sta per ‘botte’; e il mezzule e la lulla sono due sue componenti). Proprio a queste scelte lessicali di Dante si deve il giudizio parzialmente negativo su di lui formulato nel Cinquecento da Pietro Bembo: citando due versi dell'Inferno «e sì traevan giù l’unghie di scabbia, / come coltel di scardova le scaglie» (XXIX, vv. 82-83), Bembo deplorava quelle discese dantesche verso il basso che noi moderni possiamo apprezzare. E non è un caso che Bembo, nel codificare l’italiano letterario, abbia scelto Petrarca come modello della poesia e Boccaccio come modello della prosa, mettendo in secondo piano proprio Dante.