Ritratto del cardinal Pietro Bembo
Pur non nutrendo una grande simpatia nei confronti della Firenze a lui contemporanea – e non è un caso che in città le tracce dei suoi passaggi siano pressoché assenti – Pietro Bembo (Venezia, 1470 - Roma, 1547) è un convinto sostenitore del volgare fiorentino trecentesco. Fine umanista e grammatico, Bembo è il vincitore indiscusso dell’animato dibattito linguistico cinquecentesco e proprio a lui si deve la codificazione dell’italiano letterario. Nelle sue Prose della volgar lingua (1525), Bembo stabilisce il primato del fiorentino del Trecento, celebrando la Firenze del passato e prendendo le distanze dal fiorentino vivo e popolare del suo tempo. Per l’esattezza, indica come modello di lingua letteraria quella usata da Petrarca per la poesia, e da Boccaccio per la prosa; a essere escluso è proprio Dante, al quale Bembo rimprovera le scelte linguistiche troppo basse e realistiche. Così facendo, il letterato veneziano sancisce la separazione tra lingua scritta e lingua parlata, condizionando il futuro della nostra lingua: da questo momento in poi, ci si avvia verso una lingua comune a livello nazionale, che però è soltanto scritta ed è lontana dall’uso corrente. Se oggi possiamo leggere Dante o Petrarca senza tante difficoltà, lo dobbiamo alle scelte bembiane: il recupero del fiorentino cristallizzato all’epoca delle Tre Corone ha fatto sì che l’italiano scritto, a differenza delle altre lingue neolatine, si sia mantenuto immutato per secoli nelle sue componenti di base.
Bembo e la codificazione dell’italiano letterario
Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, terza edizione, Firenze, 1548-1549, frontespizio.
Alla prima edizione veneziana delle Prose del 1525, segue una seconda ancora a Venezia (1538). La terza viene stampata postuma dal tipografo Lorenzo Torrentino che, invitato a Firenze da Cosimo de’ Medici, apre una stamperia nei pressi di Via del Garbo (oggi via della Condotta). L’edizione fiorentina viene forzatamente orientata dal curatore, Benedetto Varchi, verso il fiorentino coevo.
Alla prima edizione veneziana delle Prose del 1525, segue una seconda ancora a Venezia (1538). La terza viene stampata postuma dal tipografo Lorenzo Torrentino che, invitato a Firenze da Cosimo de’ Medici, apre una stamperia nei pressi di Via del Garbo (oggi via della Condotta). L’edizione fiorentina viene forzatamente orientata dal curatore, Benedetto Varchi, verso il fiorentino coevo.
Pur non nutrendo una grande simpatia nei confronti della Firenze a lui contemporanea – e non è un caso che in città le tracce dei suoi passaggi siano pressoché assenti – Pietro Bembo (Venezia, 1470 - Roma, 1547) è un convinto sostenitore del volgare fiorentino trecentesco. Fine umanista e grammatico, Bembo è il vincitore indiscusso dell’animato dibattito linguistico cinquecentesco e proprio a lui si deve la codificazione dell’italiano letterario. Nelle sue Prose della volgar lingua (1525), Bembo stabilisce il primato del fiorentino del Trecento, celebrando la Firenze del passato e prendendo le distanze dal fiorentino vivo e popolare del suo tempo. Per l’esattezza, indica come modello di lingua letteraria quella usata da Petrarca per la poesia, e da Boccaccio per la prosa; a essere escluso è proprio Dante, al quale Bembo rimprovera le scelte linguistiche troppo basse e realistiche. Così facendo, il letterato veneziano sancisce la separazione tra lingua scritta e lingua parlata, condizionando il futuro della nostra lingua: da questo momento in poi, ci si avvia verso una lingua comune a livello nazionale, che però è soltanto scritta ed è lontana dall’uso corrente. Se oggi possiamo leggere Dante o Petrarca senza tante difficoltà, lo dobbiamo alle scelte bembiane: il recupero del fiorentino cristallizzato all’epoca delle Tre Corone ha fatto sì che l’italiano scritto, a differenza delle altre lingue neolatine, si sia mantenuto immutato per secoli nelle sue componenti di base.