Pulpito di Dante

Dante e la prima riflessione sul volgare

Dante e la prima riflessione sul volgare
Torretta edicola dantesca, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Sulla facciata della Biblioteca Nazionale, leggiamo le prime parole della profezia sul successo del volgare, profezia con cui Dante chiude il primo libro del Convivio: «questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce».


Dante Alighieri (Firenze, 1265 - Ravenna, 1321) è il primo a credere nel successo del volgare. Consapevole delle grandi potenzialità di questo mezzo linguistico, scrive all’inizio del Trecento il De vulgari eloquentia, un trattato che costituisce la prima tappa del dibattito sulla lingua. In un’epoca in cui è il latino la lingua della comunicazione intellettuale (e non a caso lo stesso De vulgari è scritto in latino), Dante si mette alla ricerca di una lingua di cultura che sia degna, tanto quanto il latino, degli usi letterari. Per farlo, passa in rassegna i diversi volgari della penisola italiana, aprendo così le porte alla dialettologia moderna. Ma dopo aver constatato che nessuna di queste parlate locali – neanche il fiorentino – ha i requisiti necessari, propone come lingua comune letteraria il volgare illustre, cioè un volgare ideale sovraregionale. La modernità delle riflessioni dantesche sta nell’aver intuito, già nel XIV secolo, che di là dalla frammentazione politica e linguistica dell’epoca esiste una dimensione comune costituita proprio dalla lingua letteraria. Le idee elaborate nel De Vulgari, superate in gran parte nella Commedia, non avranno però un’immediata risonanza: il trattato rimarrà sconosciuto per due secoli fino a quando non verrà riscoperto dal letterato vicentino Trissino, che lo farà conoscere agli intellettuali fiorentini nella cerchia degli Orti Oricellari.